Felicità sintetica

liberarsi dalla schiavitù degli obiettivi e vivere una vita felice

Tutti siamo portati a pensare “Sarò felice quando…”. Questo quando assume per ognuno un’accezione particolare: quando conquisterò quella donna di cui sono pazzo, quando avrò una bella casa di proprietà in cui vivere con la mia famiglia, quando arriverò a fare il lavoro che voglio. Il sistema filosofico in cui viviamo ci ha abituato a pensare così. Il nostro modello etico funziona infatti per obiettivi. Già Platone, indicava come l’uomo per essere felice dovesse seguire una serie di precetti, tra cui ad esempio studiare la matematica e la filosofia, che l’avrebbero finalmente portato alla sperata meta. La filosofia induista ha rilevato come l’uomo per essere felice ricerchi il raggiungimento di certi obiettivi: conquistare un amante e godere del piacere carnale (kama), accrescere la ricchezza e il potere personali (artha), costruire una famiglia ed essere riconosciuti per il proprio ruolo sociale (dharma).

Uno psicologo americano, Daniel Gilbert, ha chiamato la felicità che scaturisce dall’ottenere quello che vogliamo “naturale”. La notizia sorprendente è che da suoi studi sul campo e studi in laboratorio è emerso come, per le persone, avere o meno la promozione sperata, passare o non passare un esame all’università, conquistare o non un amante, hanno molto meno impatto, meno intensità e molta meno durata di quello che ci si aspetta che avranno . La felicità naturale, sostiene Gilbert, ha la stessa intensità di quella che lui chiama “felicità sintetica”. La felicità sintetica è quella capacità che ognuno di noi ha di adattare i propri pensieri ed emozioni alla realtà, in modo da godere di ciò che si ha.

Esiste un paradigma sperimentale, il paradigma della libera scelta, per dimostrare la sintesi della felicità: si portano sei oggetti e si chiede a un soggetto di classificarli da quello che piace di più a quello che piace di meno. Uno di questi esperimenti è stato condotto con delle stampe di Monet. Ad un gruppo di persone è stato chiesto singolarmente di classificare queste stampe di Monet da quella che piace di più a quella che piace di meno. In seguito, è stato detto loro che avrebbero potuto portare a casa uno dei quadri a scelta tra quello che avevano posizionato nella classifica come numero 3 e il numero 4. Naturalmente le persone hanno scelto il numero 3. Tempo dopo, alle stesse persone è stato chiesto di stilare nuovamente la classifica di gradimento con le stesse stampe: il numero 3 saliva in classifica, mentre il numero 4 scendeva: Quello che si erano portati a casa era molto più bello, quello che non avevano preso non valeva niente. Si tratta della capacità di sintetizzare la felicità ed è un sistema immunitario psicologico che abbiamo tutti. E’ come se nella nostra testa ci fosse una meravigliosa macchina che ci permette di essere felici di ciò che abbiamo e non possiamo cambiare, di liberarci dall’idea del “non abbastanza”. Idea tra l’altro che non produce gli effetti sperati.

Il nostro cervello, in particolare la corteccia pre-frontale,  è dotato di un simulatore di esperienze per cui noi possiamo sapere prima, quanto qualcosa possa o non possa piacerci. Perciò non abbiamo bisogno di assaggiare una torta al cioccolato con glassa all’uovo e pancetta per sapere che non ci piacerà. Il punto è che spesso questo simulatore si sbaglia. Economisti e psicologi statunitensi hanno rivelato ciò che viene chiamato “impact bias” o pregiudizio sull’impatto che è la tendenza del simulatore a funzionare male. Non solo perciò pensare continuamente a quello che vogliamo ottenere non ci permette di godere di ciò che abbiamo, ma quando raggiungiamo l’agognato traguardo non abbiamo la soddisfazione che sognavamo di avere.

Sembra proprio che valga la pena di liberarsi dal ragionare per obiettivi ed abbandonarsi a ciò che l’induismo chiama moksa: liberarsi dalla catena del dover raggiungere qualcosa ed essere grati di come siamo.

 

Irene Morrione e Giulia Imbastoni

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